Rock News
17/04/2025
Quando ha formato la sua prima band, The Crawley Goat Band a soli 14 anni insieme al fratello Richard alla sorellina Janet e a degli amici, Robert Smith aveva già chiara la sua idea di musica come espressione autentica di sé stesso: «Ai ragazzi inglesi negli anni 70 veniva detto di non manifestare mai le proprie emozioni, ma io non riuscivo proprio a non farlo. Inoltre fa parte della mia natura oppormi a quello che mi viene detto di fare». Quella prima band ha cambiato nome e formazione molte volte, è diventata Malice poi Easy Cure e infine The Cure ma Robert Smith non ha mai cambiato atteggiamento, e nel 1979 ha incantato l’Inghilterra con uno dei singoli più delicati, personali nella storia del pop, in cui su una melodia cristallina racconta le lacrime che ha versato per la fine di una storia d’amore e nel ritornello ripete ironicamente la frase che ha sempre sentito dire da tutti: i ragazzi non piangono, Boys Don’t Cry.
«Non ho mai provato imbarazzo a mostrare me stesso e i miei sentimenti. Non credo che potrei fare musica senza raccontare le emozioni» ha detto in un’intervista «Devi essere un cantante davvero molto noioso se pensi di poterlo fare». Boys Don’t Cry, secondo singolo pubblicato dai Cure (dopo Killing An Arab) è una delle canzoni più famose nella carriera dei Cure e una delle più amate dai fan, e a Robert Smith piace perché: «Mi ricorda quando ero molto giovane».
E’ un pezzo che ha creato un’estetica, ha radunato una generazione intorno all’idea di mostrarsi per quello che si è davvero, e nell’era del post punk inglese ha gettato le basi di quella sottocultura che verrà chiamata dark, ma secondo Robert Smith la vera identità e il vero suono dei Cure si sono definiti con il secondo album della band, Seventeen Seconds del 1980 e con il brano che dal vivo ha sempre emozionato di più il pubblico, A Forest. «L’archetipo della musica dei Cure» ha detto Robert Smith «Il momento di svolta in cui tutti, me compreso, hanno iniziato ad ascoltarci e a pensare che potevamo raggiungere qualcosa».
Nell’elenco delle sue canzoni preferite dei Cure c’è Just Like Heaven dall’album Kiss Me Kiss Me Kiss Me del 1987 che ha definito «La canzone pop perfetta dei Cure: tutti i suoni si sono fusi, abbiamo fatto un solo take ed era perfetta», mentre la canzone a cui è più legato emotivamente è Faith che chiude e dà il titolo al loro terzo album del 1981: «Non credo che riuscirò mai a scrivere una canzone che riesca a catturare un momento, smuovermi qualcosa dentro e cambiarmi la vita come Faith».
Robert Smith ha lasciato uno spazio nella sua Top Five del anche per le sperimentazioni più psichedeliche e dark degli anni 90 dei Cure, scegliendo End dall’album Wish del 1992: «Una canzone che raggiunge esattamente tutto quello che ho sempre voluto fare».
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